Piergiorgio Welby è morto. L’anestesista ha staccato il respiratore che lo teneva in vita; così facendo ha eseguito la volontà di un uomo che dopo anni di sofferenze aveva chiesto di porvi fine.
Casi come questo avvengono quasi quotidianamente lontani dalle telecamere e dai giornalisti, lontani da qualsiasi pubblico, avvengono in modo nascosto e privato. Questo caso è stato diverso, prima di tutto perché ad esso è stata data una dimensione pubblica, perché Welby ha chiesto che gli fosse riconosciuto il diritto di scegliere di morire; richiesta che ha suscitato ogni genere di reazione: dalla solidarietà, umana e politica, alla dura condanna, ed ha scatenato un dibattito politico che va ben oltre i confini del caso concreto. Questa differenza non è di poco conto. Basti pensare a come ad essa si è appigliato il Vaticano per negare le esequie religiose. Infatti, queste vengono ormai il più delle volte concesse a chi si suicida, ma quando della volontà di morire se ne fa una battaglia pubblica, allora il discorso cambia.
Da più parti si chiede una legge che regolamenti in modo preciso e dettagliato la materia, che crei definizioni inequivocabili; ci si nasconde dietro un presunto vuoto legislativo, si pretende di incasellare dentro concetti normativi universalmente validi situazioni che possono essere definite solo da chi le vive. Esiste già una definizione di “accanimento terapeutico” ed esiste il divieto per il medico di praticarlo, così come esiste il diritto per il malato di rifiutare le cure. Quello che è necessario non sono nuove norme che porrebbero solo limiti e divieti (come abbiamo visto quando si è trattato di fare una legge sulla procreazione medicalmente assistita), piuttosto il riconoscimento di una sfera di libertà dell’individuo e il suo diritto ad autodeterminarsi.
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